non è solamente all’interno di una testa d’ ”ovo boglio” o in una di legno scolpita da un fulmine malnato, né, solamente ma sicuramente, dietro ad un sorriso murato a falsità: il “male” è ubiquitario, ovunque, abita le ombre e i sotterranei delle cose, è parte costituente del tutto. In particolare, considerando i danni che produce e il dolore che procura, anche attraverso il meccanismo oscuro e terribile riassunto nella natura in “prede e predatori” – contemplato o meno a priori – di fatto, trova nell’uomo il suo agente moltiplicatore principe. 

Gli svariati nomi datigli nelle stagioni del tempo e della storia – Freud riferisce di una Entità, “il Grande Sconosciuto, persona o cosa, che si nasconde dietro al Fato” – non possono che rammentare un concetto, l’astrazione di qualcosa che è, ma non è identificabile, mentre lo sono gli esiti del suo manifestarsi, le conseguenze, quelle sì tangibili, della sua azione.

Mediante un’azione che risulta a posteriori essere stata obnubilante, irretente, straniante, illudente, accattivante, fuorviante ecc., il male, infatti, può più facilmente agire su questa creatura che, erroneamente, ritiene di essere capace di decidere, di scegliere, di saper controllare la propria volontà e di saper gestire le straordinarie capacità di cui è dotato il suo cervello, al contempo esposto a svariate interferenze, quali quelle prodotte da istanze emotive, da sollecitazioni ormonali, da squilibri biochimici, nonché dagli effetti, suscettibili, risentiti dei sensi, dalle funzioni svolte dai cibi, per non parlare delle influenze prodotte da droghe e quant’altro.



Potrebbe essere proprio questa presunzione la debolezza, la falla attraverso la quale il male sottentra e influenza le azioni umane, di certo a suo agio nell'uomo tanto più abbagliato, ubriaco di presunzione (presunzione che nel caso di investitura, di esercizio di un potere può trasmutarsi facilmente in superbia), quanto più aberrante e pericoloso nel suo agire. Oppure è da domandarsi, seriamente, se la specie che si considera superiore rispetto alle altre, appurato che senz’altro ne è la più pericolosa, sia veramente, come si crede - come presume di essere - intelligente o, quantomeno, che sia capace di esserlo, che riesca insomma a comportarsi come l’aggettivo che si è attribuito dovrebbe ricordargli.

Il procedere della scienza e, contemporaneamente, il susseguirsi di guerre sempre più attrezzate di ritrovati micidiali, di innovazioni tecnologiche e il fatto che l’uomo non tragga esperienza o non riesca a trarne dalla storia, indirizzato, come è, alla costruzione di armi di distruzione planetaria, lo rappresentano dotato di incredibili abilità sì, ma al tempo stesso specifiche, settoriali, che in sostanza non lo rendono in grado di preservare sé stesso, gli altri esseri, il pianeta.
Proprio nella specificità, nella selettività, nella specialità delle abilità espresse ed esprimibili risiede il problema o l’inganno: avere tali possibilità ed essere deficitarî del discernimento adeguato, responsabile riguardo agli esiti dell’utilizzo di tali capacità.


Libri su libri consigliano, educano, confortano, distraggono, teorizzano, concertano, spiegano, poetano, colorano, non pensano, dispensano, divertono, studiano, negano; di fatto, millenni di storia umana hanno prodotto un sistema economico-finanziario, si può dire generalizzato e, a quanto pare, consequenziale, che, consonante a ciò che vige maggiormente in natura, promuovendo la competizione e l’efficienza vincente – al prezzo di una sovraproduzione strabica e della mortificazione ambientale – finisce per basarsi sullo sfruttamento comunque di moltitudini meno “abbienti” o di crearne. 

Tale sistema, che contempla anche la possibilità di guadagni personali teoricamente illimitati nel produrre e vendere beni necessari, nel corso della sua automazione e implementazione è venuto a trovarsi costretto, per la sua stessa sopravvivenza, a dover creare continuamente necessità indotte, sottoforma di beni di consumo innovativi sempre più appetibili, e, allo stesso tempo, effimeri. Il tutto dentro un meccanismo creditizio e speculativo che ha finito per essere coinvolto nella medesima sempre più asfittica competizione. 

In tale modello quella che era chiamata “concorrenza” è divenuta lotta di conservazione, combattuta sullo scivolo dei conflitti territoriali che a loro volta determinano nuove produzioni e commercio di armamenti. Ecco perché, finanche nelle università, si sovvenzionano studi e ricerche atti a potenziare tecnologia bellica.
Ed è da tali studi che, molto spesso, comunque secondariamente, derivano le innovazioni da utilizzare in ambito medico, sociale, umanitario. Se poi ci si imbatte nella casualità di una scoperta o si giunge ad essa per fini benevoli, su questa si interviene e si trova il modo di affinarla e di sfruttarla mirando al potenziamento degli armamenti; vedi la guerra batteriologica, chimica, nucleare.






Intanto il male, come il minotauro, reclama le sue vittime, in ogni dove e in ogni modo, senza tregua e libero ancora più sul palcoscenico del quotidiano, dove alle navi negriere, a soprusi coloniali fanno seguito, conseguenti, migrazioni immani. Dinanzi a questo modo di progredire, che sembra appunto concorrere a facilitare e a sviluppare l’azione del male oscuro nella natura, domande oblique chiedono se questo sia il miglior possibile espresso dalla specie umana, quale ne sia l’orizzonte, se questo processo sia ineludibile, o se possa esservi una risposta, un’alternativa effettiva, realizzabile.

Considerando lo scenario naturale - un’arena di tutti contro tutti, un flipper di fantasmagorica compulsione gladiatoria, dove ogni creatura viene a trovarsi sfera gettata inopinatamente a giocarsi l’esistenza sopra un piano inclinato, intorno alla buca - si constata che la natura, nell’evidenza, è più propensa a creare vita che a distruggerla; e che, mentre si adopera a produrre incredibili sistemi di difesa in ogni essere vivente - da quello immunitario alle risposte adattative all’ambiente – il meccanismo della selezione appare fornire vittime a carnefici per rendere tutti più agguerriti, sempre più efficaci, in un ordine variabile, nella difesa, nella lotta e, inesorabilmente, nell’aggressione. L’esito di questo comportamento è una risultante entropica di dolore e sofferenza, procurati dai suoi attori trovatisi ad agire per necessità.

Riferendoci all’uomo - che ne ha superato proditoriamente, cinicamente i confini - questo modello conclama il suo stile, predisponendo, elevando a capibranco più facilmente i tiranni guerrafondai e i dittatori, proteggendoli, preservandoli rispetto agli operatori di pace, ai miti. Generalmente, i primi, se non longevi e conservati fino alla vecchiaia, lasciano la scena comunque dopo aver prodotto e sparso - come la Storia ci consegna - distruzioni, crimini e guerre.

In tale contesto (frequentato, attraversato, a quanto pare, indiscriminatamente dal ”caso”, dal “fato”), l’altro attore, il “bene” – Ippocrate alla vita – se non già radice universale, sembra esserne reazione indotta, necessaria per contrastare, rintuzzare, respingere, arginare l’azione dell’antagonista endemico insonne.
Nella contrapposizione, però, il male, essendo più “naturale”, giocando sempre in casa, è favorito nella partita; lo si vede nelle scelte, nelle propensioni di voto quando si tentano democrazie.

È molto più facile prospettarsi un tornaconto che una distribuzione di beni; è molto più pagante ricevere consensi da masse compattate ammorbando l’aria di paura, odio, discriminazioni, nei confronti del nemico di turno; risultano più prossime e battute le scorciatoie degli istinti e dell’emotività rispetto ai tornanti e ai percorsi erti, lunghi del pensiero.
Decisamente poi, questo vizio e questa infezione innati potrebbero rivelarsi ancora più virulenti e pericolosi nell’uomo intento a progettare macchine e robot, per implementare il dominio, il suo potere, su quanto ha intorno e finanche nello spazio, in quanto, di fatto, lo costringono ad una dipendenza sempre più irreversibile, dagli esiti imprevedibili.

Constatato o supposto che il razionale non sia poi tanto tale, l’ ”irrazionale” delle religioni può contrastare la deriva del primo in modo apparentemente paradossale, invertendo cioè le caratteristiche di partenza. Sul razionale che si comporta irrazionalmente, l’ ”irrazionale” può esercitare una funzione razionale diventando una forza potente contro il male.

Questo avviene quando sono seguiti - non per paura o per ipocrisia - i dettami, i canoni, i comandamenti che stanno alla base delle religioni; in questi territori l’uomo, se non altro, trovandosi in una condizione di umiltà, è più cosciente della sua vera natura - pregare, di per sé, è già mettere in ginocchio la propria strafottenza, la prepotenza, la supponenza - e tale esperienza può essere buona guida alla correzione della propria condotta.

Esempi di questi raggiungimenti (come e accanto a quelli di chi, convinto o no dei suoi orizzonti terreni, ha fatto, fa della sua vita una preghiera, operando aiuto, sostegno fattivo, solidarietà verso chiunque ne ha o ne ha avuto bisogno) hanno illuminato e sono di profondo conforto all’umanità; e, per quello che posso comprendere, mi paiono la umana risposta alla vita, a questo respiro imprestato senza conoscerne le clausole ad usura. 

Eppure, quando si perviene ad una radicalizzazione delle stesse Istituzioni, quando vi si smarrisce il senso che le ha generate, il male, facendo leva sugli istinti sopra accennati, vivifica al loro interno e ne capovolge i valori fondativi, arrivando, attraverso questo pervertimento, a far compiere misfatti, abusi e malefici orrendi, ad innescare guerre ancora più cruente e fanatiche.

All’interno di questo modello, dove il cervello può essere il più grande impostore e nemico di sé stesso (a volte i sogni, gli incubi riescono a scappare, ad evadere mascherati per venire a dirci chi siamo), dove l'assurdo può anche manifestare cinicamente la sua assurdità - un esempio ne è Theresienstadt - individuare un senso è formulare verità relative; cercare risposte all’accadere, al massimo, è raccontarsi ciò che ci fa piacere, ciò che ci sembra vero o che ci immaginiamo di vivere, vivendo altro.

Le realtà illusorie, che ci creiamo o nelle quali veniamo a trovarci, apprestano e arredano le stanze di pensiero nelle quali viviamo, tra pareti di sughero e specchi; dal loro interno crediamo di comunicare, mentre ciò che passa – in fondo – non è altro che quello che l’interlocutore ha necessità di sentirsi dire, quello che dal nostro interno vogliamo ascoltare e che siamo portati ad intendere.

E poiché, sovente, le parole, indossate come vestiti, cambiano con le stagioni - nell’ambito di una consuetudine invalsa, fattasi prassi nel rapporto con gli altri, che contempla, che si avvale del non detto, del taciuto, o, all’occorrenza, dell’uso della bugia e finanche della menzogna -, la percezione del reale risulta ancor più distorta. Conseguenza prossima ne è la costruzione dell’immagine di noi stessi, di come pensiamo di essere, di come ci vediamo.

Tale rappresentazione - a partire da quella fittizia che ci rimanda lo specchio - è comunque differente da quella che gli altri hanno, si fanno di noi, ognuno a suo modo.


 Anche questa riflessione, che individua nella presunzione malata di ambizione, di narcisismo, di egoismo, di bramosia di potere, la causa patologica delle tragedie dell’umanità, è frutto di uno stato d’animo, di come leggo, di come credo di interpretare l’esperienza, ritenendo poi che questo scrivere altro non sia che una necessità, un’occorrenza che ne ha segnato al tempo stesso il percorso.

Ma al di là della ricerca delle motivazioni che originano la riflessione descritta, per quanto posso comprendere, è l’entità enorme – la sproporzione – di ciò che intendo nominare “male”, nonché l’arbitrarietà con la quale viene distribuito o si distribuisce in termini di dolore e di sofferenze con e per le azioni umane, la spinta primaria che mi sollecita questa analisi.  Nello specifico, ciò che mi viene da trarne è che gli stadi, la gravità delle “malattie” sopra citate ci informano della carica, della quantità di “male” che investe, che agisce in noi umani, tanto più interessati, imbevuti, quanto meno semicoscienti.

Volgendo al termine questa riflessione, cerco nell’orizzonte che si fa vicino di tener conto che essa stessa risente di un tempo imprestato - orfano di amici già scesi dal treno –, di un tempo casellante che addita attorno acciai assicurati a traversine corrose.

Sull’orizzonte provo a discernere un rimbalzo che la conforti, la rassereni, ma non trovo che la sua rifrazione dispiegata in immagini e fogli a disvelarmi il suo senso.
Ed è là che il pensiero si racconta o raccorda un vissuto, in superficie impiegato nella preparazione e poi nella operosità di un laboratorio e, nell’anima, consegnato nella caldera-cucina dell’arte, spesso in piedi ai fornelli, dove non ho potuto che condividere, con chi ha voluto, assaggi di un tempo rubato.

Ed insonne, quel tempo, per cercare un segno al tratto che mi quietasse, per trovare la rispondenza di un colore al sentire; un tempo lasciato sui libri dell'arte e, ancor più, per leggerne tra le righe gli spazi. È là che rinvenivo la costante, la necessità che ha spinto i suoi giganti ad esprimersi tramite lei: additare la visione di un mondo altro possibile o attestare il dramma di viverne, in questo, l'assurdo.


Sulla base di questo, l'Arte mi è apparsa espressione inusitata dell'inconscio della Storia, interprete dei suoi sogni e dei suoi incubi.
Avventurandomi nei suoi territori, ho incontrato presto le sue domande, le stesse – come ho compreso poi – che dovevo pormi per lavorare sui miei fogli confusi di dentro. Lei non ti dà risposte: ti porta davanti al tuo recondito espresso. La risposta è scritta in ogni opera, perché ogni opera mostra l’autore, non quello che lui pensa di aver realizzato; ogni opera è un referto che l’inconscio invia in primo luogo proprio all'autore per comunicargli lo stato dell’anima. 

Scorrendo i miei lavori, le “lettere al blu”, vedo quante volte lei – questa interlocutrice immateriale – mi ha scritto, mi ha parlato con i suoi alfabeti, con i suoi colori, i suoi tratti, registrando in loro le temperature psichiche alle quali si sono prodotti. 

Adesso, in questo tempo decantato, adesso che questo ripercorso virtuale me lo permette, comprendo che principalmente è stato ed è un colloquio a due, lei – il suo fare – e me, che ora più l’ascolta.

Opere di cielo o opere di terra? Posso solo dire che davanti ad opere appese, graffite, scritte, innalzate, vissute nelle strade del Museo del mondo, mi giungono sempre più care e preziose quelle originate, sospinte, inchiostrate da un bene testardo; quale? Quello, ad esempio, che giunge, ti arriva da chi te ne vuole davvero; te ne accorgi perché - questo bene - lievita dentro e diventa più, da dare, da restituire: una mano di carte buone, nonostante il baro. Un’ostinata risposta, mi pare, a quel cosmo del cielo, delle stelle, dei pianeti, dove, come ci dicono gli scienziati, anche lì, esplosioni, contrazioni, disintegrazioni, mutamenti giganteschi non si danno pace